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Fosi met amor alla MUEF ArtGallery

Mostra personale di pittura del maestro Fausto Roma.

Delle metamorfosi
Questa mostra di Fausto Roma al MUEF forse è un gioco, un calembour pittorico e sensibile che l’artista vuole ingaggiare con l’osservatore, o forse no, è una dichiarazione coscienziosissima sull’estetica della variazione, sul modo con cui la percezione si modelli attraverso la distribuzione ricombinatoria degli elementi dell’impressione visiva, e da sensazione si traduca in emozione come varcando passaggi di ricomposizione cromatica. La metamorfosi dunque, ma non quale processo di alterazione della forma che trapassa in altro e diverso aspetto, ma come riordinamento e riallestimento di un cosmo plurimo, e quindi delle sue tensioni e dei suoi valori, senza annichilimento e oblio del precedente. Diventa cioè un incrementarsi delle visioni e delle valenze, un complicarsi creativo e generativo di effettività, un ampliarsi e attraversarsi fluente delle dimensioni e delle forze vitali.
Tutto ciò è evidente anche dal titolo che Fausto Roma ha voluto dare alla sua esposizione, questo “fosi met amor” che è anche una risistemazione semantica del vocabolo, quindi un rienumerarsi dei significati, delle definizioni, delle decodificazioni. E che nelle opere si dispiega come processo/procedimento organico e organizzativo di elementi fondanti: il colore prima di tutto (e in qualche modo, vorrei dire, assoluto), perché è il colore, la stesura cromatica e pittorica, a essere soggetto e contesto espressivi. Poi il segno, che è punto, linea, forma (losanga). È un segno vivo, quello di Fausto Roma, non tracciato con la perentorietà del disegnatore tecnico, ma rappreso e al tempo stesso scorrente sulla superficie del colore, grumo cellulare e plasma di energie. È un segno quindi che si definisce in surroga di più euclidee astrazioni geometriche e con il suo andamento eccedente perciò anche restituisce equilibrio a opere che altrimenti sarebbero troppo o solo pittoriche, vincola lo sguardo alla estensione del dipinto contro una corrente cromatica irresistibile. L’immediatezza percettiva si apre a una laica sacralità, come a instillare il senso di mistero e il timore reverenziale al cospetto di bellezza e armonia che sono fra le sensazioni più primitive e primarie dell’umanità. Eppure la profusione coloristica di Fausto Roma non si può definire primitivistica o naïve, ma incarna l’abbondanza dell’esperienza visiva che si traduce in opera ed è tutto fuorché elementare, ma anzi composita, plurale, proteiforme.
E ovviamente metamorfica. La profondità spaziale, gli attraversamenti e i travalicamenti fra piani e assetti rappresentano l’ambito in cui si muove libero e irruente l’immaginario fantastico. La trasformazione non è pertanto cambio e inganno di forme, ma scarto di prospettive e varianti che emerge da una scrupolosa costruzione spaziale. È perciò un’arte umanamente commisurata, che possiede sempre qualcosa di impulsivo, ma che pure viene contenuta e limitata riguardo gli automatismi psichici e gestuali, e più che di innata semplicità è necessario dire di innato senso del progetto visivo, del calcolo estetico.
Allora queste opere, e anche la loro collocazione per dimensioni e vicinanza, per contrappunto e varietà di gamma, ebbene sì, sono anche un gioco, ma serissimo e riflessivo, gioco che traccia un percorso senza direzioni o transizioni prestabilite e imposte, ma che ugualmente e necessariamente conduce a una investigazione, sia individuale che collettiva, sulle tante e differenti visuali che assume il nostro sguardo sul mondo, sulle possibilità di mutazione che un approccio non stereotipato alla realtà rivela e offre alla nostra metamorfica esperienza del vivere.
Francesco Giulio Farachi


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