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Monte de' Cocci, storie dall’ottavo “colle” di Roma

È certamente la più curiosa delle alture di Roma. Ai sette colli originari, l’espansione edilizia degli ultimi due secoli ha aggiunto molte altre colline; e a tutte queste vanno aggiunti quelli che si possono definire i «monti archeologici»: modesti dislivelli provocati dall’accumulo di residui di antichi edifici quali il Monte Giordano, Monte Savello, Monte Citorio e Monte Cenci. Tuttavia Monte Testaccio, che è anch’esso un’altura artificiale, ha ben differente origine. Infatti con la sua altezza di 54 metri sul piano circostante e con il suo perimetro di un chilometro circa, esso altro non è che un accumulo di anfore abbandonate e sistematicamente ammucchiate in un ben definito luogo di scarico. Dalla fine dell’età repubblicana a quella imperiale, il vicino porto mercantile, con le conseguenti operazioni di immagazzinamento e di smistamento che avvenivano presso l’Emporio e negli “Horrea”, produceva uno scarto di grande quantità di anfore olearie e vinarie, oltreché di altri contenitori in cotto per il pesce conservato. Di conseguenza le “testae” (anfore) d’argilla di risulta dovevano venire accantonate e lo si fece con una particolare tecnica che prevedeva un regolare accatastamento, frapponendo ai vari strati di materiale abbandonato degli strati di terreno che dessero consistenza alla costruzione. Un accumulo di tale entità ed altezza fu reso possibile dalla presenza di una prima rampa e di due stradelle percorse dai carri trainati da muli ricolmi di cocci e di anfore frammentarie, molte delle quali conservano il marchio di fabbrica impresso su una delle anse, mentre altre presentano i tituli picti, note scritte a pennello o a calamo con il nome dell'esportatore, indicazioni sul contenuto, i controlli eseguiti durante il viaggio, la data consolare. Le anfore erano enormi: vuote pesavano fino a 30 chilogrammi, mentre quando venivano riempite potevano raggiungere i 100 chilogrammi. Anche lo smaltimento delle anfore non più utilizzabili perché rotte fu organizzato dai Romani in maniera esemplare. Funzionari chiamati “curatores” supervisionavano la rottura delle anfore e il loro trasporto fino alla cima della collina. Con la sua imponenza, Monte Testaccio testimonia la intensità dei traffici con le regioni – soprattutto con la Betica in Spagna e dall’Africa – da cui provenivano quelle importazioni, specie in età tardo repubblicana e imperiale. Si calcola che la collinetta si sia formata nel corso di sei secoli. Nel corso dei secoli successivi il motivo dell'accumulo dei cocci fu dimenticato, tanto da far sorgere intorno al colle delle improbabili leggende: chi sosteneva fossero i risultati degli errori di lavorazione delle vicine botteghe di vasai, chi asseriva fossero i resti delle urbe cinerarie traslate dai colombari della via Ostiense, mentre una leggenda raccontava che la collina fosse stata formata dei resti del grande incendio di Roma nel 64. Per secoli il monte fu ignorato dall’iconografia urbana probabilmente poiché a causa del suo utilizzo come discarica non era ritenuto meritevole di particolare menzione; il nome mons Testaceum, infatti, appare per la prima volta in un'iscrizione databile al VII secolo circa circa, conservata nel portico della chiesa romana di Santa Maria in Cosmedin mentre l'originario nome di epoca romana è ignoto, anche se alcuni studi identificherebbero l’antico “vicus mundiciei” (vicolo dell’immondezzaio) del periodo adrianeo, ubicato in prossimità di quello che diventerà progressivamente il popolarmente monte dei cocci. Va ricordato che Le proprietà isolanti dell'argilla sono state sfruttate per secoli inducendo i romani a scavare alle pendici del colle artificiale numerose grotte al cui interno la temperatura si attesta tutto l'anno intorno ai 10°. I locali scavati tra i cocci vennero adibiti a cantine, dispense e stalle e successivamente, a partire dal medioevo, furono sede di osterie. In epoca più moderna i grottini furono adibiti a ristoranti e locali notturni. Ancora in epoca medioevale vi si celebrava il carnevale con giochi crudeli e cruenti: si allestivano tauromachie e la più popolare “ruzzica de li porci”: carretti di maiali vivi venivano lanciati giù dalla collina e quando si sfracellavano in basso il popolo dava la caccia ai frastornati animali. Dal XV secolo, trasferito il carnevale in via Lata per volontà di papa Paolo II , il monte divenne il punto di arrivo per la Via Crucis del Venerdì Santo, trasformandosi in un vero e proprio Golgota, come mostra la croce ancor oggi infissa sulla cima. Più tardi sarà meta privilegiata delle “ottobrate romane”, le tipiche feste romane, che vedevano sfilare verso le osterie e le cantine del Testaccio i carretti addobbati a festa delle “mozzatore”, le donne che lavoravano come raccoglitrici d'uva nel periodo della vendemmia : tra canti, balli, gare di poesia, giochi e chiacchiere, ci si rinfrancava dal lavoro e soprattutto si “innaffiava” il tutto con il vino dei Castelli Romani , conservato nelle cantine scavate alle pendici del monte. Un esplicito riferimento a monte Testaccio è contenuto nella novella El licenciado Vidriera dello scrittore Miguel de Cervantes raccolta nell'opera Novelle esemplari pubblicata nel 1613.
«Cosa volete da me ragazzi, testardi come mosche, sporchi come cimici, coraggiosi come pulci? Sono forse io il Monte Testaccio a Roma che mi gettate contro cocci e tegole?» Occorre tuttavia attendere fino al settecento perché al monte e ai reperti lì accatastati venga riconosciuto valore archeologico: l'abitudine dei romani di prelevare materiale dalle pendici del colle stava mettendo in pericolo l'abitabilità dei locali sottostanti tanto da muovere le autorità, nel 1742, a emettere un editto a tutela «...di un'antichità così celebre». A tale divieto, per le stesse motivazioni, si aggiunse due anni dopo la proibizione di pascolare armenti sul monte Testaccio.
Durante l’assedio di Roma del 1849, su monte dei cocci fu posizionata una batteria di artiglieria che da tale altezza prendeva agevolmente e insistentemente di mira i francesi accampati vicino alla Basilica di San Paolo fuori le Mura. Similmente, durante la seconda guerra mondiale, sulla cima del colle fu installata una batteria antiaerea posizionata su basamenti di cemento, i cui resti sono ancora visibili.
Le prime organiche ricerche archeologiche sul monte furono condotte a partire dal 1873 da Heinrich Dressel cui si deve la valorizzazione storica del sito e un imponente lavoro di catalogazione dei cocci e di classificazione delle anfore, sulla base dei bolli e dei tituli picti rinvenuti su alcuni di essi. Calcoli approssimativi, che hanno anche tenuto conto della progressiva erosione del monte dei cocci e dell'asportazione di parte del materiale, utilizzato spesso a fini costruttivi nel passato, hanno permesso di stimare in più di 53 milioni le anfore depositate sul colle nel corso dei secoli che si sono accumulate fino a formare il colle artificiale.
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